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Liberi e riconoscibili

Liberi e riconoscibili

#Contagiamoci di futuro
La Spezia 6.6.2025

Liberi e riconoscibili

Patrizia Cappelletti
Centro ricerche A.R.C Università Cattolica

 

Questo titolo, “Liberi e Riconoscibili”, l’ho interpretato a modo mio, poi mi direte se sono andata fuori tema.

Liberi e Riconoscibili: Domande e Traiettorie

Si pongono delle domande molto belle, molto interessanti, su che cosa vuol dire “fare insieme” e “agire in modo collettivo oggi”. “Liberi e Riconoscibili” offre due coordinate che aprono una possibile traiettoria di una rotta che è ancora tutta da definire. Sono anche le due coordinate che aprono però un campo di azione, e in quel campo di azione possono succedere tante cose che non possiamo al momento ben definire. Questo è il primo aspetto: noi stiamo navigando in una rotta che non è molto conosciuta: sappiamo cosa c’è dietro, ma non cosa c’è davanti.

La prima coordinata, “essere liberi”, fa suonare tante domande: liberi da chi? Liberi da cosa? Ma soprattutto, liberi per chi? Liberi per cosa? Che cosa farsene della libertà che abbiamo? E poi, chiaramente, la seconda domanda riguarda la declinazione: che cosa vuol dire essere liberi? In realtà, mi pare che se osservate la vostra storia questa idea di libertà non sia una declinazione banale, quanto per molti aspetti contro-culturale. Cioè, il mondo ci dice che la libertà è un’altra cosa rispetto a quello che forse possiamo pensare noi. E quindi questo essere un po’ lontani dall’idea che la libertà è libertà di scelta, la disinibizione di fare una serie di cose, ci porta invece su un terreno un po’ diverso, che non è quello del main stream. Lascia aperta anche una domanda, che affronteremo nei tavoli di lavoro che seguiranno dopo.

L’altra coordinata non è meno interessante: “che cosa vuol dire essere riconoscibili”? Nuovamente: riconoscibili a chi? Per chi? Perché? Da una parte c’è il tema dell’essere identificabili, e dunque, essere identificabili vuol dire essere originali, essere unici, non essere omologati, non essere standardizzati, ma anche essere diversi internamente, quindi anche essere plurali. C’è quindi una dimensione interna e una dimensione esterna.

Cosa possono voler dire queste due traiettorie: libertà e riconoscibilità? Non è semplice. Non è semplice tenerle insieme perché, se ci pensiamo, la libertà tende ad uscire mentre la riconoscibilità tende a mantenere una buona dose di coerenza per dire che non diventiamo altro da quelli che siamo. E quindi si apre una bella tensione. Oggi mi sembra che la vostra storia, la nostra storia mi sento di dire, ci chieda che cosa vogliamo diventare, che cosa vogliamo essere. Alcune convinzioni che avevamo prima non ci sono più, ce ne sono delle altre. Ma questa apertura è profondamente interrogante, soprattutto apre una questione che è anche organizzativa, ma non solo. E credo che abbia a che fare più con delle premesse antropologiche, perché abbiamo le due coordinate, no? La libertà da una parte e la riconoscibilità dall’altra, che si pongono come due elementi interroganti. Ma il punto in cui queste due coordinate si trovano è ancora incerto.

La Vita: Relazione, Movimento e Forme

Guardando questi anni, la cosa che più mi avete rimandato è la vita, la vitalità di questa rete ancora in emersione. Quindi l’elemento della vita, che aggiungerei a “liberi e riconoscibili”, mi domanda: “Ma allora che cos’è la vita?”. Cioè, se io voglio mantenermi vivo, devo andare a vedere che cos’è la vita. Devo capire che cos’è la vita, che cosa mi dice rispetto all’essere vivi.

La prima cosa, che è una premessa ovviamente a quello che dirò, è che non esiste vita al di fuori della relazione. La vita è relazione e noi siamo in relazione con tutto. Mauro Magatti, nel suo ultimo libro, scrive: “Fin dalle forme più semplici la vita si dà solo dentro un tessuto di relazione”. E la stessa costituzione della soggettività sociale – cioè delle persone, ma anche delle organizzazioni, delle istituzioni, degli Stati – non può essere pensata a prescindere da questa caratteristica originale. Quindi, il tema della relazione è fondamentale: se vogliamo essere vivi dobbiamo stare in relazione.

Il secondo passaggio è che la vita è anche movimento. Un movimento che ha a che fare con l’apertura e lo scambio. Quindi, è il movimento che sta dentro quella relazione. La relazione non è ferma, ma è uno scambio continuo, un’interlocuzione continua, e questo ovviamente ci sollecita e ci chiede di cambiare. Noi continuamente cambiamo. A tutti noi è richiesto un cambiamento: a livello personale, collettivo, sociale. Il filosofo Edgar Morin ci avverte: se non si genera, si degenera. È una frase lapidaria, ma vera: o noi generiamo, cioè siamo dentro questo movimento di apertura, di scambio, di cambiamento, o degeneriamo. E la degenerazione diventa una malattia che porta alla morte. Non si scappa! Ed è la relazione che nutre e accompagna questo cambiamento.

Ma poi c’è un terzo punto su cui voglio attirare la vostra attenzione, perché la vita, come relazione e come movimento, ha bisogno di forme per darsi. La vita non può fare a meno delle forme. La vita sarebbe solo un flusso informe se fosse solo movimento. Le forme sono tutte intorno a noi: la famiglia è una forma, la scuola è una forma, l’istituzione è una forma, un’organizzazione di lavoro è una forma. E la ragione delle forme è quella di rendere visibile la vita e il perseguimento di obiettivi specifici. La forma è sempre, in qualche misura, una forma organizzata.

Essere generativi significa anche mettere al mondo delle forme. Le forme sono un indicatore di generatività e ogni forma che arriva nel mondo è una cosa nuova, che rompe lo status quo, che si propone con nuove logiche, con nuovi obiettivi, che si prende il suo spazio e il suo tempo ed acquista una persistenza. E’ un’iniziativa che trasforma il mondo.

Lo psicanalista Francesco Stoppa dice questa cosa molto bella: “L’uomo istituisce la vita”. L’uomo diventa il creatore delle forme che rendono la vita possibile. Noi di solito, quando pensiamo alle istituzioni (qui ci sono persone che stanno nelle istituzioni o che lavorano nelle istituzioni) tendiamo ad immaginare a qualcosa di solido, di granitico, di immobile. In realtà, se approfondiamo l’etimologia di questa parola, scopriamo un universo molto diverso. Sentite un po’: “istituzione”, “istituire” deriva da: piantare, innalzare, costruire, fondare, dare inizio, decidere, stabilire, deliberare, indirizzare, educare, adottare. Sono verbi bellissimi ed importanti! Allora, questo movimento è tutto intorno a noi, ed anche noi nella nostra vita tendiamo a iniziare delle nuove istituzioni. Noi fondiamo, costruiamo, decidiamo, organizziamo. Qui ci giochiamo la nostra libertà e la nostra riconoscibilità. Nell’azione istituente.

Il Rischio delle forme e la necessità di umanizzare le Istituzioni

Questo è tutto molto bello, tuttavia, questo movimento è anche rischioso perché quello che è stato istituito tende inevitabilmente a trasformarsi da risorsa in problema. In che senso? Proprio perché la vita è dinamismo, movimento, continua apertura nella sua multiformità e contraddittorietà, il rischio è che invece le istituzioni a un certo punto tendano ad allontanarsi dalla vita che è sempre, a suo modo, “istituente”. Ciò che è stato istituito diventa “istituzione” si cristallizza, diventa sovrastruttura, perde di vista i suoi fini e se ne trova di propri. Anzi, spesso il fine ultimo dell’istituzione diventa quello di sopravvivere, invece che raggiungere gli obiettivi originali. Lo vediamo benissimo in quel fenomeno che chiamiamo “burocrazia” che è dappertutto e ci riempie di cose da fare. Ma, a questo punto, la vita dove è? La forma ha espulso la vita.

E’ questo il grande nodo che dobbiamo affrontare: la vita ha bisogno di forme, ma le supera continuamente, perché la vita è trascendente. Ora, se non possiamo fare a meno delle forme ma la vita non può stare imbrigliata in una forma, come la mettiamo?

Ma potremmo fare a meno delle forme? Recalcati è molto chiaro su questo punto nel ricordarci che la vita, senza istituzione, sarebbe “in preda alla pulsione di morte”. Per dirla altrimenti: senza istituzioni rischiamo di andare a schiantarci. La vita sarebbe caos. E non è un caso che una delle prime cose che le istituzioni creano è il linguaggio, affinchè ci si possa capire. Ci parliamo per comunicare, per intenderci gli uni con gli altri, per lavorare insieme. Allora, l’istituzione non è una sciagura, non è un peso, non è una zavorra nemica della vita: piuttosto è la condizione per umanizzarla.

Mantenere Viva la Capacità Generativa: Consigli e Riflessioni

Se ci pensiamo, la vita senza istituire una forma, alla fine si autodistrugge. E allora ritorniamo alla domanda: le forme ci servono, ma se alcune forme non vanno bene come riusciamo a tenere vive le istituzioni, le nostre organizzazioni? Come possiamo mantenere viva questa capacità generativa che pur prendendo una forma, resta istituente?

Ho spulciato un po’ di libri per capire se trovavo qualche consiglio. Ovviamente il discorso è complesso e quanto dirò non esaurisce la ricerca e la riflessione ma, forse, può essere un inizio….

1. L’Interrogazione Continua (Recalcati)

La prima indicazione interessante arriva da Recalcati. Lui si pone la nostra domanda così: “Quando un’organizzazione si ammala e quando invece respira bene ed è generativa?”. E risponde: “si tratta ogni volta di interrogare come un’istituzione o un’organizzazione riesca a costruire la propria identità senza escludere i cambiamenti e le inevitabili trasformazioni che sopraggiungono”. Cioè: come facciamo a riscrivere continuamente il nuovo nel vecchio, in quello che già esiste? Come possiamo riscrivere il nuovo pur restando noi, liberi e riconoscibili, quindi senza snaturarci e senza rimanere fermi? Si tratta quindi di interrogarsi su come riuscire a tener viva la passione per l’irrompere della realtà.

2. Il Rischio dell’Incontro e dell’Ospitalità (Stoppa)

Il secondo consiglio arriva invece da Francesco Stoppa, già citato prima, che si pone la stessa domanda: “Come mantenere viva questa capacità generativa pur prendendo forma?”. E lui  risponde, aggiungendo un altro elemento: quando ce la sentiamo di “entrare nel rischio dell’incontro e dell’ospitalità della domanda che porta la vita, quella domanda che porta l’umano“. E dunque, è la domanda del bisogno, del dolore, della malattia, del disagio, dell’amore, della fragilità che la vita comporta. Quindi: “Ce la sentiamo di entrare nel rischio di stare nella relazione, nel rischio di quell’incontro e di quell’ospitalità?”. E lui dice: “L’importante è essere consapevoli che la vocazione prima delle istituzioni è dare dimora, creare spazi di ascolto, fornire le condizioni per un’evoluzione di tali processi spesso invisibili e mai lineari di trasformazione e di crescita soggettiva”. Cioè, l’istituzione deve creare gli spazi perché ciascuno possa crescere, possa diventare pienamente se stesso, possa fiorire. In sintesi: non possiamo rinunciare ad “esporci al reale dell’altro”, cioè alla verità e alla realtà che l’altro ci porta. Accogliere le sfide dell’incontro con la vita è un’altra indicazione preziosissima.

3. Il Vuoto e il Fuoco (Massimo Recalcati)

Un terzo consiglio arriva nuovamente da Recalcati: un’organizzazione vive quando riesce a far dialogare due elementi, il vuoto e il fuoco. Recalcati descrive il vuoto come  “vuoto centrale”. Senza un vuoto centrale ogni organizzazione è destinata a perdere tutta la sua potenza. E qui possono succedere due cose in un’organizzazione. Nel primo caso, quando il vuoto non è centrale ma diffuso, le organizzazioni diventano caos. Quando il vuoto è dappertutto, c’è lo smarrimento, il disorientamento, nel senso di iperattivismo o di depressione. Ciò si verifica “quando nessuno si assume la responsabilità dei processi, quando nessuno si sente coinvolto da ciò che accade”. Nel secondo caso, il vuoto è sì centrale, ma è continuamente riempito da altro; non si regge la presenza del vuoto, che viene continuamente saturato. Recalcati lo identifica nel caso delle organizzazioni connotate da un ordine rigidamente gerarchico, in cui, “anziché presidiare il vuoto centrale, si preferisce esercitare la sua occupazione territoriale.” Ecco che qui prevale un solo discorso e la proprietà coincide con la responsabilità. Potremmo dire: io sono responsabile di questa cosa, perché è mia. Quale relazione tra proprietà e responsabilità?

Il discorso di Recalcati prosegue e diventa sempre più interessante, perché se non c’è questo vuoto non c’è neppuree il fuoco, poichè il vuoto funziona come l’ossigeno. Se noi proviamo ad accendere una candela e non c’è ossigeno, la candela si spegne. Quindi abbiamo bisogno di questo vuoto per accendere e far durare il fuoco. E il fuoco che cos’è? E’ il desiderio generativo. Quella spinta a mettere al mondo cose nuove, a ricreare il mondo continuamente, a partecipare a questa continua rigenerazione. È la potenza del fuoco che fa esistere le cose, che rende appunto un’organizzazione istituente. Quindi un’istituzione che respira bene è un’istituzione accesa perché qui abita il fuoco.

Vuoto e fuoco devono convivere, se vogliamo una forma viva. Ma nuovamente la domanda: come si fa? Come riusciamo a presidiare questo vuoto? Recalcati indica una via: “attraverso un dinamismo che spinge i membri di un’organizzazione a riprendere su di sé il gesto originario della sua fondazione, dunque a farlo esistere ancora”. Far esistere sempre e ancora, ogni giorno, di nuovo, quello che è stato istituito la prima volta. Ognuno deve prendersi cura di far continuamente accadere l’origine. Questo far dialogare vuoto e fuoco è il segreto della vitalità – e dunque della durata e significatività – delle organizzazioni.

4. Comunità Sfera e Comunità Poliedro (Papa Francesco e Luigino Bruni)

Un altro carattere lo prendiamo da Papa Francesco, e ha a che fare con la forma della forma. Papa Francesco parla di forme comunitarie e noi  di “Contagiamoci” siamo una forma comunitaria: abbiamo messo in comune saperi, progetti, sensibilità, valori… Ci ritroviamo? Bene! Papa Francesco descrive due tipi di comunità: le comunità sfera e le comunità poliedro.

Le comunità sfera sono quelle che nascono da un fondatore e tendono ad assomigliare a una sfera: c’è un centro e tutti i punti che sono sulla superficie sono equidistanti dal centro. C’è un centro chiaro e le persone che compongono la sfera – lo scrive Luigino Bruni che ha ripreso questa differenziazione – sono tutte uguali, sono orientate allo stesso modo e in una stessa direzione. Pertanto, basta che tu conosca una persona e le conosci tutte perché tutte tendono a conformarsi alla personalità del carisma del fondatore. Basta conoscere un componente e puoi farti tranquillamente un’idea molto chiara di che cos’è quella comunità.

Molto diversa è la comunità poliedro, ben più articolata, perché ha più facce. Per questo, per conoscere la comunità – dice Bruni –  non ti basta conoscere una persona sola. No, le devi conoscere tutte, perché sono tutte diverse e sono molteplici i carismi, i caratteri, i rapporti, i colori che compongono quella comunità.

Mentre le comunità sfera – questo punto è molto interessante – sono molto efficienti (finchè c’è il fondatore perché poi quell’efficienza scompare), le comunità poliedro sono molto più difficili da guidare, richiedono più tempo per l’attivazione di processi, invece che per l’occupazione di spazi. Essendo infatti le persone molto diverse, c’è bisogno di tempi di ascolto. I leader ci sono anche qui, ma appaiono meno interessati al controllo e all’uniformità, mentre sono più focalizzati sulla fioritura delle persone. In questo senso, hanno più fiducia nel futuro che nel passato. Che bella questa cosa! Che potenza ha questa descrizione se pensiamo alle nostre organizzazioni e istituzioni!

Quindi, nel lungo periodo, soprattutto se pensiamo al futuro di Contagiamoci, emergono differenze interessanti. Le comunità sfera hanno difficoltà a trovare una nuova conformazione una volta che non c’è più il fondatore; le comunità poliedro fanno più fatica all’inizio, ma poi hanno una grande ricchezza, una grande creatività, una grande capacità di innovazione, una grande capacità istituente.

Un’altra domanda: “A chi vogliamo assomigliare?”. Se vi guardo, direi decisamente alla comunità poliedro. E tra l’altro anche questa idea, appunto, della fatica che si sta attraversando adesso è proprio un bel sintomo, no? Non si va via lisci nelle decisioni, bisogna prendersi il tempo anche di discutere animatamente sulle cose, perché ognuno porta il suo sguardo, la sua identità, la sua diversità: alti costi di transazione, ma poi arriveranno risultati molto interessanti.

5. Forme che Parlano al Tempo Presente (Bruni)

Un ultimo carattere che vi propongo ce lo suggerisce ancora Luigino Bruni: “sarebbe bello avere una forma che parla a questo tempo”. Se ci guardiamo in giro, molte forme sono vecchie.

Bruni parte da lontano con il suo ragionamento, da Gesù che inizia la sua attività. Oggi la ricerca storica ed esegetica ci raccontano che Gesù per un certo tempo ha seguito Giovanni Battista e il suo movimento. Sappiamo che il Battista battezzava nel fiume Giordano. La gente attratta da lui arrivava, si faceva battezzare, restava un po’ di tempo e poi se tornava a casa sua, portando nei diversi luoghi la testimonianza.

Nello stesso periodo era famosa un altro tipo di comunità fondata, quella di Qumran. Era una comunità stanziale, con una casa e una regola. Bruni ci ricorda che per molto tempo tutte le comunità monastiche nascenti si sono ispirate a Qumran. Solo con San Francesco nasce un movimento nuovo. San Francesco ha dovuto discutere col Papa, perché lui e i suoi fratelli non avevano una casa, andavano di città in città predicando e non possedevano nulla. Con San Francesco nasce una comunità molto diversa.

Sarebbe bello se oggi ci fossero comunità fatte anche cosi:“più tenda e meno palazzo, più accampamento e meno istituzione, più spirito e meno legge, più ospiti e meno padrone”, le descrive Bruni. Una comunità forse più affine allo spirito di questo tempo, più capace di parlare anche alle nuove generazioni. Si tratterebbe di comunità capaci di porsi come obiettivo di formare persone che, non restino per impegni presi ieri, ma per i sogni di domani.

Due modi diversi di pensare una comunità ma anche un’organizzazione, non trovate?

6. L’Organizzazione come pianta (Luigino Bruni)

Tradizionalmente abbiamo sempre pensato all’organizzazione come ad un animale, dice ancora Bruni. Un animale forte, potente, che aggredisce. Il cui organismo è composto da tante parti diverse, ciascuna con una propria funzione e ruolo: l’occhio fa l’occhio, l’orecchio fa l’orecchio. Ma se pensassimo all’organizzazione come una pianta?, si chiede Bruni. Le piante hanno imparato a respirare e a sentire con tutto il loro corpo, da qui la loro grande resilienza. Mentre l’animale se perde un organo muore, la pianta può perdere anche l’ottanta per cento del suo corpo e sopravvivere. Quello che là si faceva con il cuore, qui si può fare con tutto il corpo. Detto altrimenti: se il carisma diventa radice, tutte le parti hanno lo stesso DNA. La descrizione di Bruni ci ricorda le organizzazioni “generative” che sviluppano un’intelligenza collettiva, diffusa, non solo centrale e personale del fondatore, o del gruppo di quelli che hanno avuto l’idea. Ma sta in tutti e tutti concorrono alla sua vita e vitalità.

Conclusione: Rischiare, Variare e Raccontarsi

Allora, fatto tutto questo percorso, torniamo all’inizio.

Oggi ci siamo un po’ fermati a pensare a quale forma vogliamo darci per continuare ad essere una realtà istituente, una forma viva, una forma libera, una forma riconoscibile. Ma gli autori ai quali abbiamo chiesto un consiglio ci dicono però, e sono tutti d’accordo, che non ci sono assicurazioni. Per dare riconoscibilità occorre uscire dalla logica della sicurezza. “Per mantenere le cose umane vive non c’è altra garanzia della libertà senza garanzie”, dice Bruni.

Per “essere liberi” occorre rischiare sempre. Penso anche alle istituzioni che sopravvivono nella routine del “si è sempre fatto così”, delle replicazioni. Ma oggi abbiamo bisogni e domande inedite, mai viste prima, che non trovano più risposta nelle forme vecchie. Per restare vivi occorre rischiare.

Un’altra filosofa, Anne Dufourmantelle, scrive così: “Siate capaci di variazione e sfuggirete alla ripetizione”. Allora, se vogliamo essere vivi, se vogliamo dire qualcosa di nuovo, dobbiamo essere capaci di variazioni. Il rischio della variazione e non la sicurezza della ripetizione. Variare significa assumersi il rischio di poter sbagliare, ma può portare a qualcosa di meraviglioso.

E poi l’ultimo punto: per essere vivi, liberi e per riconoscersi ed essere riconoscibili, occorre raccontarsi e diventare storie. Luigino Bruni ce lo ricorda molto bene: “Le imprese collettive come queste iniziano mentre provano a raccontarle a qualcun altro“.

Allora, un buon lavoro!